Speciale Oblio Digitale

Le nuove frontiere della privacy online potrebbero minare la libertà d'informazione?

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Nel 1998, Mario Costeja Gonzalez, un cittadino spagnolo, si trovava in un periodo di difficoltà economica. Per coprire parte del suo debito, molti dei suoi beni vennero messi all’asta dall’autorità giudiziaria, segnando l’inizio di un momento molto delicato nella sua vita personale. Nonostante le difficoltà, l’uomo riuscì ad uscire da quella fase, iniziando una nuova vita, ma nel 2010 si accorse che Google non la pensava allo stesso modo: scrivendo il suo nome sul noto motore di ricerca infatti, i primi risultati indicizzati mostravano due pagine del quotidiano spagnolo “La Vanguardia”, del 1998, in cui veniva pubblicizzata la vendita all’asta delle sue proprietà a seguito del pignoramento dei suoi beni. Undici anni dopo i fatti dunque, il suo nome era ancora indissolubilmente legato a quell’evento, macchiandone in modo indelebile la reputazione. L'uomo inizia quindi una battaglia legale, portando Google e il giornale spagnolo direttamente al cospetto della Corte di Giustizia Europea, nell’ennesimo revival di Davide contro Golia. Come nel racconto biblico, il piccolo Mario riesce a vincere contro il gigante Google, dato che la corte gli dà piena ragione, attraverso la sentenza C-131/12 del 12 maggio 2014, che sancisce la responsabilità dei motori dei ricerca sul trattamento dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi. In pratica, Google, Bing, Yahoo etc sono obbligati a predisporre strumenti con cui i cittadini possono segnalare la presenza di un link che lede la loro privacy, rimuovendolo dalle ricerche nel caso in cui il danno venga accertato. L'unico paletto posto dalla corte riguarda la rimozione del contenuto lesivo dal sito che lo ha pubblicato, procedura che può essere applicata solo in casi particolarmente gravi.
Una bella vittoria per Mario Costeja Gonzalez, che produrrà cambiamenti rilevanti sul web in ottica futura. Come spesso accade quando si parla di leggi però, non sempre la loro applicazione porta esclusivamente all’obbiettivo prefissato. Ecco perché un argomento come questo merita un approfondimento, per comprendere fino in fondo i cambiamenti che potrebbe portare e le sue criticità.

Disconnect

La privacy nell’era dei social network è un argomento molto delicato, soprattutto quando si parla di minori, forse i più esposti ai pericoli e alle trappole che possono scaturire da un’incauta gestione delle attività online. Il cinema si è dimostrato particolarmente sensibile a queste tematiche, con il film “Disconnect”, uscito nel 2012 e passato purtroppo in sordina nel nostro paese. La trama della pellicola verte sull’intreccio di tre storie, legate indissolubilmente dai temi portanti sviluppati nel corso della narrazione filmica: le insidie che possono nascondersi dietro a un nickname, le paure e i problemi celati dietro a uno schermo, l’utilizzo di alter ego digitali, che si dissociano spesso dalla personalità degli individui che li utilizzano. Una delle tre vicende può essere presa ad esempio perfetto per descrivere i motivi per cui il diritto all’oblio digitale assumerà un importanza cruciale nel futuro prossimo.
Tutto nasce come uno scherzo, che vede due adolescenti creare un finto profilo Facebook di una ragazza. I due iniziano a chattare con Ben, un giovane preso di mira a causa del suo carattere introverso, che si dimostra subito interessato alla nuova amicizia.

Tutto sembra configurarsi come una goliardata, un modo come un altro per fare qualche risata e passare il tempo nella noiosa periferia americana, fino a quando i due superano il limite, spingendo Ben ad inviare un autoscatto in cui si immortala senza veli. Un evento di questo tipo non può rimanere segreto, almeno per i due ragazzi, che decidono di pubblicare l’immagine sui social network. È a questo punto che lo scherzo si trasforma in dramma: distrutto dalla vicenda, Ben decide di farla finita, convinto del fatto che la sua immagine reale sarà per sempre legata a quella foto.
Questo è solo un esempio, una finzione cinematografica, ma la realtà di tutti i giorni ha già mostrato, anche in Italia, come il cyber bullismo sia ormai un problema reale e molto attuale. Da questo punto di vista, il diritto all’oblio potrebbe rappresentare l’unica possibilità per le persone che vogliono dimenticare le dolorose vicende che le hanno viste protagoniste, consentendogli di poter ancora avere un futuro, senza che il passato torni continuamente a bussare alla loro porta. Un tempo sarebbe bastato cambiare scuola o città per lasciare alle spalle la vita passata, ma con i social network e la crescita esponenziale dell’utilizzo della rete non potrà più essere così.

Nuova legge nuovi problemi

Come spesso accade in tema giuridico, una volta introdotte nuove possibilità, sono in molti a tentare di interpretarle per i fini più disparati. Il caso del diritto all’oblio digitale non è da meno, dato che la sentenza della corte europea ha aperto nuove strade alle aziende, strade purtroppo molto pericolose. Prendendo ad esempio Google, allo stato attuale basta compilare un semplice form per inviare la richiesta di cancellazione dei link desiderati al colosso di Mountain View, che può decidere se accettarla o meno. La semplicità non è certo una cosa negativa, anche perché in questo modo le persone interessate possono sfruttare il servizio senza particolari competenze.
Il New York Times però, in un recente articolo, ha sollevato molti dubbi sull’efficacia di questo metodo e sulle conseguenze che potrebbe avere sul futuro della libertà di espressione nella rete. A parlare è Andy Donaldson, direttore di Hit Search, un’azienda britannica che opera nel settore dell’online reputation mangement, una branca della comunicazione aziendale specializzata nel gestire l’immagine dei brand su internet. Prima dell’arrivo della sentenza della corte europea, Hit Search svolgeva compiti molto comuni per questo tipo di agenzie, come verificare il livello di gradimento del pubblico online per un determinato marchio o prodotto, oppure migliorare l’immagine aziendale attraverso la creazione di contenuti realizzati ad hoc. Ora, molte agenzie hanno inserito tra servizi offerti la possibilità di ricercare e segnalare a Google possibili link dannosi per l’immagine aziendale, come ad esempio recensioni negative di prodotti, con lo scopo di rimuoverli.
A questo punto, la palla passa a Google e agli altri motori di ricerca, investiti del potere di decidere cosa può e cosa non può essere eliminato dalle ricerche. Purtroppo, le procedure con cui vengono prese queste decisioni non sono ancora chiare e Big G si è limitata a dire che le pagine di interesse pubblico non subiranno alcun oscuramento dei link. A conferma di ciò, pare siano state già molte le richieste di cancellazione giunte da aziende, richieste finora quasi sempre rispedite al mittente. Resta il fatto che investire delle società private di un potere decisionale simile rappresenta un rischio, vista anche l’assenza di limiti nell’esercizio di tale potere.
Esistono poi situazioni limite, in cui il confine tra privato e pubblico è meno definito. Prendiamo ad esempio il caso di una persona che in passato ha commesso dei reati, che lo hanno portato agli onori delle cronache, siano esse locali o nazionali. Questa persona ha diritto all’oblio digitale per potersi rifare una vita o i cittadini dovrebbero essere informati di ciò che ha fatto in passato? Come si può vedere da questo semplice esempio, l’argomento pone questioni che vanno ben al di là della nostra portata, come anche di quella dei motori di ricerca, che appaiono totalmente inadeguati a decidere su tematiche simili. L’unica speranza è che l’oblio digitale finisca di nuovo sotto la lente del legislatore europeo, che avrà il duro compito di sbrogliare i nodi morali ed etici che caratterizzano questi temi.