Cosa succederebbe se il pH degli oceani si abbassasse (ancora)?

Gli oceani stanno subendo un processo di acidificazione che potrebbe cambiare profondamente il nostro modo di vivere.

Cosa succederebbe se il pH degli oceani si abbassasse (ancora)?
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L'ambiente marino sta cambiando velocemente e i parametri dell'idrosfera fanno preoccupare sempre più gli scienziati, i quali stanno cercando di prevedere cosa potrà succedere a breve se non poniamo un freno alle nostre emissioni sconsiderate. In particolare, si parla dell'acidità degli oceani e di come questa impatterà sulla vita di tutti noi.

L'oceano è un'unica vasta distesa d'acqua che occupa circa il 70% della superficie del nostro pianeta, in Italia è usanza suddividere l'oceano in tre parti a seconda dei continenti: l'oceano Pacifico, Atlantico ed Indiano.
Altre suddivisioni vengono effettuate per definire porzioni minori o quelli che vengono chiamati mari indipendenti, come il mar Rosso o il mar Mediterraneo, tuttavia sono convenzioni geografiche. L'oceano rimane un unico bacino d'acqua che si rimescola continuamente grazie alle correnti marine.

Per la valutazione dello stato di salute dell'oceano vengono presi in considerazione diversi parametri tra cui la temperatura, il pH, la concentrazione di sale disciolto, il livello di ossigeno disciolto e tantissimi altri. Lo studio delle condizioni marine viene anche definito oceanografia ed è una materia estremamente complessa che deve prendere in considerazione un notevole numero di fattori tutti collegati tra loro.

Oggi parliamo di pH, uno dei parametri che più stanno facendo preoccupare gli scienziati negli ultimi 20 anni.

Che cos'è il pH?

Il pH è, in termini matematici, la funzione logaritmica di segno negativo della concentrazione degli ioni H+ in soluzione. Semplificando, è un valore che esprime la quantità di protoni H+, definiti acidi, all'interno di una soluzione e va da 0 a 14.

Il pH è un parametro importantissimo per gli oceani in quanto il suo valore ci aiuta a valutare il ciclo del carbonio, che interessa tutti gli esseri viventi. Abbiamo detto che il pH indica la concentrazione degli ioni H+ in soluzione, quindi volgarmente lo si definisce come indice dell'acidità di un qualcosa. Ad esempio, una bevanda si definisce acida quando il suo pH è inferiore a 7 mentre viene detta basica quando il suo pH è maggiore di 7.
Perché proprio il numero 7? Questo è un valore di riferimento che si ottiene dalla dissociazione dell'acqua pura: una molecola di H2O è infatti in grado di dissociarsi in H+ e OH- una volta ogni 10^14 molecole. Essendo l'acqua il maggiore solvente presente in natura, questo valore viene indicato come pH neutro.

Il pH oceanico

Il pH, quindi, viene utilizzato per capire quanto una soluzione sia acida o basica. In particolare, i nostri mari e l'oceano dovrebbero mantenere naturalmente un valore di pH, che oscilla durante l'anno solare, intorno a 8, fino a una condizione ottimale tra 8.2 e 8.3.

Ciò significa che i nostri mari dovrebbero essere basici e così è stato per miliardi di anni, più o meno, fino alla prima rivoluzione industriale, evento a partire dal quale i livelli di pH si sono abbassati prima lentamente poi sempre più velocemente, fino ad arrivare a oggi, in cui si parla di emergenza di acidificazione degli oceani.

Come si spiegano i livelli di pH e perché stanno cambiando?

Come detto in apertura, il pH è strettamente correlato ad altri parametri e in particolare al ciclo del carbonio, ovvero il modo attraverso il quale il carbonio viene scambiato tra la geosfera, l'idrosfera, la biosfera e l'atmosfera.

L'interscambio di carbonio tra questi distretti, chiamati anche "carbon sinks", ha un grande punto in comune, che è la CO2 ovvero l'anidride carbonica. Ad esempio, noi esseri umani produciamo energia tramite il metabolismo. Per semplificazione, prendiamo zucchero e lo trasformiamo in CO2 e acqua. Le piante invece, tramite la fotosintesi, fanno il processo opposto e così via.

Viene chiamato ciclo perché dovrebbe esserci un equilibrio tra ciò che, volgarmente, esce ed entra tra i vari distretti. L'oceano è uno di questi e assorbe circa il 30% della CO2 rilasciata in atmosfera. Qui l'anidride carbonica viene solubilizzata, passando appunto dall'atmosfera all'idrosfera. A contatto con l'acqua, la CO2 effettua la reazione di formazione dell'acido carbonico, quest'ultimo poi si dissocia in ioni H+ e ioni carbonato (CO3)2-. In questo modo arriviamo dunque a comprendere come questo ciclo sia strettamente collegato alla formazione di ioni H+ e all'acidità dell'oceano.

L'anidride carbonica ha una determinata solubilità in acqua, tuttavia se noi ne produciamo troppa e impediamo agli altri distretti di recuperarla dall'atmosfera, come fanno, ad esempio, le piante, l'oceano diventa uno dei maggiori canali per l'immagazzinamento della CO2.
Il problema è che, come detto prima, più anidride carbonica entra nel mare, maggiore è la formazione di acido carbonico, maggiore è la concentrazione di ioni H+ e il pH scende diventando sempre più acido.

Situazione attuale

A oggi si stima che il pH oceanico sia sceso dall'8.2 di prima della rivoluzione industriale a 8.1. Questo può sembrare un cambiamento da poco ma non lo è assolutamente: variare il pH di 0.1 punti significa una variazione esponenziale a livello matematico.
Ricordiamo a tal proposito il significato di logaritmo matematico. Una variazione di pH da 8 a 7 significa un aumento di 10 volte della concentrazione di ioni H+, quindi provate ad immaginare quanto possa essere catastrofica una variazione di solo 0.1 punti sulla scala del pH.

Vi sono diverse organizzazioni al giorno d'oggi che si occupano del controllo dei parametri oceanici tra cui l'EPA, l'agenzia americana di protezione dell'ambiente, l'EEA, o European Environment Agency, e alcune anche molto antiche come la NOAA, l'ente di controllo dell'ambiente oceanico, fondato nel 1807 dal presidente Thomas Jefferson per la protezione delle coste americane.

Tutte queste organizzazioni concordano sulla necessità di ridurre le emissioni di CO2 da parte di tutti i paesi del mondo. In caso contrario, le conseguenze sarebbero devastanti per l'ambiente marino. I più recenti studi pubblicati su Nature indicano che il pH sta scendendo ogni anno di circa 0.0044 punti.
Di conseguenza, in circa 25 anni ci sarebbe una nuova diminuzione del pH di 0.1 punti totali, arrivando ad un pH massimo di 8, e in 50 anni a un pH di 7.9.
I modelli matematici spiegano come le coste, la flora e la fauna marina in soli 50 anni cambieranno irreversibilmente se le nostre emissioni non verranno modificate.

La soluzione principale sarebbe quella di ridurre considerevolmente la produzione di CO2 in atmosfera e smettere di disboscare intere aree verdi. Se così non fosse, ciò che abbiamo conosciuto fin da bambini come conchiglie, coste e molluschi potrebbero rimanere solo un ricordo in fotografia.

Proviamo dunque a descrivere che cosa succederebbe se il pH continuasse ad abbassarsi nei prossimi anni, come teorizzato dagli scienziati, fino a raggiungere il valore di 7.9 nell'anno 2071.

Addio a conchiglie e coralli

La maggior parte delle conchiglie e degli scheletri della fauna marina è composta da carbonato di calcio, un composto che rimane integro solo a pH basici. Se l'acidità dovesse aumentare, il carbonato di calcio reagirebbe con l'acido carbonico a dare bicarbonato.

In questo modo lo ione carbonato diviene meno disponibile a legarsi con il calcio per innestare processi di calcificazione. Nella pratica vedremmo le conchiglie diventare sempre più piccole, gelatinose e sempre più trasparenti, fino alla loro totale scomparsa.
Con esse ovviamente scomparirebbero i molluschi. Il modello matematico di uno studio nell'oceano Atlantico dimostra come nel 2100 basterebbero 45 giorni affinché il guscio di uno pteropode si disciolga completamente in acqua. Anche i coralli, nonostante siano più resistenti alla corrosione, hanno uno scheletro formato da carbonato di calcio. Con l'abbassamento del pH si avrebbe dunque la scomparsa lenta ed inesorabile della barriera corallina, casa naturale di tantissime specie marine che trovano tra i coralli protezione e un luogo in cui vivere.

Molluschi e pesci

Esattamente come le conchiglie, molluschi, vongole, cozze e tanti altri finirebbero per perire nel discioglimento del loro guscio. Senza più protezione e senza un punto di ancoraggio, non avremmo più la possibilità di assaporare piatti fantastici come gli spaghetti allo scoglio.

Tuttavia, seppur egoisticamente, è un ottimo punto su cui riflettere. Il danno maggiore si avrebbe dal fatto che molti pesci si nutrono di queste prelibatezze e senza la loro fonte primaria di nutrimento si avrebbe una riduzione del loro numero con conseguente disequilibrio di tutta la catena alimentare marina.


I pesci stessi, a causa dell'acidificazione degli oceani, avrebbero danni diretti nella formazione del loro scheletro con una riduzione delle loro dimensioni e con la formazione di lische più deboli. Presenterebbero variazioni nel comportamento, tra cui una maggiore necessità di muoversi in branco con conseguente difficoltà durante la caccia da parte dei predatori. Infine, anche le uova durante la deposizione e la loro crescita subirebbero delle alterazioni che possono portare a malformazione delle larve e morte prematura del pesce.

Plankton, salmoni e balene

Se il pH dovesse scendere sotto la soglia di 7.9 la maggior parte del plankton scomparirebbe eliminando una delle principali fonti di nutrizione per specie come il salmone e le balene. Senza il plankton, si stima che queste due specie in particolare non sarebbero in grado di sopravvivere.
La specie più a rischio al momento sembra essere il Krill: questo organismo, infatti, nello stadio larvale ha necessità di un veloce processo di calcificazione che, se dovesse venir meno, lo condurrebbe direttamente alla morte.

Tallofite e piante marine

L'acidificazione degli oceani con aumento della CO2 disciolta avrebbe conseguenze estreme anche nella flora marina. Le piante necessitano di CO2 per il processo di fotosintesi, dunque il suo aumento porterebbe ad una crescita incontrollata, dando luogo a un processo di eutrofizzazione.

L'abbondanza di alghe e di piante marine come la Posidonia e la Zostera porterebbe a una riduzione della quantità di luce negli strati più profondi dell'oceano con conseguente disequilibrio delle temperature e dell'habitat per molte altre specie marine. Questo, oltretutto, renderebbe impossibile la balneazione in alcune zone particolarmente colpite.

Gli aspetti socioeconomici

Cerchiamo di pensare nel modo più egoista ed egocentrico possibile: cosa cambierebbe dal punto di vista socioeconomico?

Prima di tutto viene il cibo. Come già anticipato, dovremmo scordarci un gran numero di prelibatezze e piatti tipici delle coste mediterranee. Addio quindi alle cozze, alle vongole, alle ostriche, alle patelle ma anche a granchi e gamberi. Tutto il mercato della raccolta e vendita dei molluschi perderebbe circa 100 miliardi di dollari entro il 2100.

La balneazione, il turismo e la protezione delle coste cambierebbero radicalmente. Si stima che per mantenere le coste inalterate tramite gli attuali progetti di protezione marina, come ad esempio il mantenimento della barriera corallina, dovremmo spendere circa 9 miliardi di dollari l'anno. Il turismo stesso ne risentirebbe perdendo i circa 2 milioni di visitatori che ogni anno visitano la barriera corallina australiana, con una perdita di circa 5.4 miliardi per il Paese in un singolo anno.
Ovviamente questo discorso vale anche per le spiagge affacciate sul mediterraneo, dove il processo di crescita delle tallofite e delle piante marine sarebbe più incontrollato, con conseguenti perdite economiche per la maggior parte degli stabilimenti balneari. A oggi però, purtroppo, non vi sono ancora studi che abbiano teorizzato questa perdita economica per paesi come l'Italia.

Infine, anche l'erosione costiera sarà una conseguenza inevitabile. Nel mediterraneo si stima un calo dei sedimenti del 31% entro il 2100 con successivo innalzamento del livello del mare, perdita di metri e metri di dune e spiagge ma anche di terreni edificabili o in cui si è già costruito, con conseguente perdita di porti e strutture balneari.
Inoltre, l'erosione dei sedimenti costieri porterebbe inevitabilmente anche ad un aumento del numero di inondazioni e di danni durante le mareggiate. Sempre per il 2100, si stima che le odierne coste occidentali della Sardegna possano addirittura sparire del tutto, ritirandosi di circa 20 metri.