Dobbiamo avere paura dell'automazione del lavoro?

Siamo sicuri che l'automazione del mondo del lavoro dovrà per forza aprire uno scenario distopico? Due politici americani non sono d'accordo.

Dobbiamo avere paura dell'automazione del lavoro?
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Con l'avanzata dei robot, quanti saranno i posti di lavoro mandati in fumo da automi e algoritmi? Secondo uno studio dello scorso aprile quasi un lavoro su due sarà svolto dalle macchine entro i prossimi 20 anni, con 210 milioni di lavori in meno. Altri sono più ottimisti, bilanciano i lavori in meno con quelli che si creeranno. Non esiste ancora, però, una fascia temporale precisa e accettata univocamente sull'anno di picco del fenomeno di automazione, tra chi parla di 2025 e chi, più ottimista, dice che non vedremo una rivoluzione piena del mondo del lavoro prima del 2040.
Eppure i primi effetti della robotizzazione arrivano già oggi, basti pensare alla recente notizia di Volkswagen che si dice pronta a tagliare 7.500 posti di lavoro per far fronte alla trasformazione digitale.

E negli USA già si pensa a come correre ai ripari

Il dibattito politico negli Stati Uniti sta progressivamente vedendo comparire con maggiore forza il tema dell'automazione. Mentre in Europa, o almeno in Italia, il tema non sembra riscontrare un forte interesse da parte dei media e della politica, succede che in Nord America la questione sia addirittura diventata la priorità numero uno dell'agenda politica di diversi candidati e membri del Congresso. 
Il caso più emblematico è sicuramente quello di Andrew Yang, un imprenditore che si è candidato alle primarie del Partito Democratico con un'unica grande proposta: istituire un reddito di base universale fisso per tutti di 1.000 dollari al mese, completamente slegato da criteri come condizione d'impiego, reddito e patrimonio.
Questo proprio per rispondere al problema dell'automazione, che a suo dire avrebbe portato la Rust Belt a votare Trump, facendolo eleggere. Probabilmente Yang è uno dei candidati di cui sentiremo parlare di più nei prossimi mesi, è, infatti, appena passato dall'essere semi-sconosciuto al ricevere un seguito impressionante grazie a due elementi: un'intervista rilasciata al seguitissimo podcast di Joe Rogan e il riposizionamento, a suo favore, di quella fabbrica di meme militarizzata che è /pol/ su 4Chan.

Ora Yang ha pure ricevuto un numero di donazioni individuali sufficienti per farlo ammettere al primo dibattito tra i candidati delle primarie Dem. La proposta di Yang, almeno superficialmente molto populista e scriteriata, potrebbe seriamente avere senso? Tanto per iniziare dare 1.000 dollari a ogni cittadino maggiorenne degli Stati Uniti ha un costo, stimato in 3 trilioni (!) di dollari. Yang nel corso di una intervista con la CBS ha spiegato che il costo netto dovrebbe essere più basso, perché oggi moltissimi americani stanno già ricevendo sussidi che verrebbero ovviamente assorbiti dal nuovo universal basic income.
Inoltre la speranza è che mettere soldi liquidi nelle mani dei cittadini meno abbienti possa avere un effetto positivo sull'economia, con ricadute sul benessere dei cittadini. Il fatto che i 1.000 dollari si possano sommare al reddito normale - a prescindere dalla sua entità - dovrebbe poi evitare incentivi al poltrire: trovare un lavoro, creare una startup, o dedicarsi ad attività intellettuali come pubblicare un libro, non fanno perdere il diritto all'UBI; aumentano semplicemente il benessere economico di chi sceglie queste strade.
1.000 dollari poi sono una somma che permette di soddisfare i bisogni di base, ma non si avvicina neppure al rappresentare un reddito completo per gli standard americani.

Yang chiama il suo universal basic income "Freedom dividend", la scelta del nome non è casuale: l'imprenditore non vuole sovvertire il sistema capitalista, ma semplicemente assicurarsi che i profitti creati dall'automazione (che non deve essere combattuta con politiche luddiste) creino benessere diffuso, e che nessuno venga mai lasciato indietro. Anche lo slogan scelto dal suo comitato elettorale è molto eloquente: Human First, che fa coppia con il suo claim di voler tornare a un capitalismo "umano-centrico".
Molto probabilmente Andrew Yang non diventerà Presidente degli Stati Uniti, ma questo non è il punto. In passato diversi politici sono riusciti a trasformare le loro candidature in una vetrina per idee minoritarie, poi diventate con successo parte della politica mainstream del Paese: basti pensare al caso del socialdem Bernie Sanders, o, dall'altra parte esatta dello spettro politico, a quello del libertario di destra Ron Paul.

Paura dei robot o del paradigma economico?

Tornando al tema dei robot: la futura automazione di sempre più posti di lavoro, non solo dei cosiddetti blue collars, dovrebbe spaventarci? Non la pensa così Alexandria Ocasio-Cortez, per cui i robot che si appropriano dei lavori non sarebbero il problema, a differenza del sistema economico che rende questo fatto una catastrofe.
Al contrario di Yang, la AOC (d'ora in poi la chiameremo così per comodità) non è proprio così ottimista nei confronti del liberismo. E la sua missione non è affatto quella di salvare il capitalismo correggendone le storture. Non a caso durante un suo intervento tenuto al South by Southwest (SXSW) l'AOC ha detto che in realtà dovremmo tutti essere un sacco felici se i robot ci scipperanno il lavoro.
"Dovremmo esserne eccitati, l'unico motivo per cui non lo siamo - aveva detto in quella occasione - è perché viviamo in una società dove se non hai un lavoro, vieni lasciato a morire. Questo è il cuore del problema".

La politica sostiene che l'automazione potrebbe portare le persone, se solo cambiassimo il paradigma economico, ad avere più tempo per istruirsi, per dedicarsi ad attività come l'arte, o semplicemente godersi la vita. Anche la giovane congresswoman del Bronx vuole che sia istituito un reddito di base universale, e per finanziarlo dice che serve una tassa sui robot. Una tassa molto-molto-molto alta: AOC vuole tassare le aziende che useranno i robot o gli algoritmi per automatizzare i processi produttivi addirittura del 90%, un numero che è parso a molti economisti come completamente arbitrario, e semplicemente assurdo.
Anche Bill Gates ha detto che sarà necessario tassare l'automazione, ma non ha mai specificato di quanto. Però la cosa interessante è che la Cortez si faccia portavoce di una sinistra radicale piuttosto nuova, che riporta la politica a una dimensione dell'utopia.

Se la sinistra estrema in Europa e in America normalmente guardava con diffidenza nei confronti delle macchine —e così ha sempre fatto—, lei si inserisce all'interno di un nuovo movimento che vuole abbracciare il progresso tecnologico, e non combatterlo, a patto di piegarlo alle esigenze della comunità, e non delle aziende. Insomma, robot e algoritmi per creare il "paradiso in Terra", e non come strumento distopico.
Forse il più importante manifesto di questa nuova sinistra è il trattato di Srnicek e Williams "Inventare il futuro: pretendi la piena automazione, pretendi il reddito universale". Anche in Europa si discusse dell'ipotesi di introdurre una tassa sui robot, ma la proposta fu bocciata nettamente dal Parlamento Europeo: "Prima di tassarli, i robot dovremmo crearli. E con una misura draconiana del genere chi si prenderà la briga di farlo?", avevano obiettato alcuni degli europarlamentari più critici. E, in effetti, come dare loro torto.