Google+ chiuderà i battenti e nessuno se ne accorgerà davvero. La grande promessa social di Mountain View è fallita dopo poco più di sette anni, tra l'indifferenza generale e uno scandalo sulla privacy degli utenti che ha dato il colpo di grazia a un progetto nato bene, sviluppato male e finito ancora peggio. Entrare nella contesa di realtà da anni presenti sul web era uno dei grandi obiettivi della grande G, ma più di qualcosa è andato storto e, tra qualche mese, Plus chiuderà i battenti agli utenti comuni, dando tempo fino al 2019 per salvare post e dati prima di abbassare definitivamente la saracinesca. Ripercorriamo la storia e i motivi che hanno portato alla fine di questo progetto.
Lo scandalo finale
Per comprendere meglio questa storia occorre iniziare dalla fine, dalla goccia che ha fatto traboccare il vaso, dalla "scusa" che ha permesso a Google di chiudere senza troppi patemi un servizio che, probabilmente, sarebbe stato comunque spento. A svelare cos'è successo è stato il Wall Street Journal che, basandosi su fonti e documenti, ha scoperto una falla risalente alla scorsa primavera, con un gruppo di hacker che si sarebbe impadronito dei dati di almeno 500 mila utenti. Il problema, scoperto da Google quasi subito, è stato in qualche modo nascosto e insabbiato per evitare guai e crolli di immagine alla "Facebook", ma è ora tornato drammaticamente alla luce. I dati trafugati riguarderebbero nomi, cognomi, indirizzi e-mail, dati di residenza, occupazione e stato civile, tutte informazioni sensibili di un certo peso e importanza. Ignota la causa della fuga di dati, mentre Mountain View ha cercato di correre ai ripari, promettendo nuove restrizioni per la tutela delle informazioni degli utenti e preparando nuovi vincoli su prodotti chiave come Android e Gmail. A tutto questo si è aggiunta la chiusura ai consumatori di Plus. Un addio indolore, con il 90% degli utenti che ormai trascorreva sul social meno di 5 secondi a sessione. Era diventato praticamente inesistente.
Crollo verticale
Capire in che modo si è sviluppata la parabola discendente di Google+ è impresa piuttosto ardua. Da anni, infatti, non esistono dati ufficiali sugli utenti iscritti, su quelli attivi e sulla loro permanenza all'interno del servizio. I possessori di un account Plus, a grandi linee, si dovrebbero aggirare tra i 2 e i 3 miliardi, tutti frutto di una politica piuttosto invasiva che obbligava gli utenti a creare un account per il social per poter utilizzare tanti servizi Google ben più importanti. Gli ultimi dati ufficiali sugli utenti attivi parlavano di 540 milioni di presenze nel 2014 e 440 nel 2016. Nel 2015, ad esempio, solo un utente su dieci aveva postato qualcosa sulle pagine di Plus, quasi tutti commenti su YouTube. Alcuni blogger hanno stimato che, nonostante i 2 miliardi di iscritti, solo 4 o 6 milioni potevano considerarsi davvero attivi. Colpa di una politica per nulla lungimirante di Google, che aveva obbligato l'accesso a utenti e aziende, senza curarsi di regalare contenuti e opzioni che giustificassero una permanenza che andasse ben oltre un'iscrizione impossibile da evitare. Molti degli iscritti a Plus non l'hanno praticamente mai usato o si sono ritrovati inconsapevolmente al suo interno, solo per poter usare Gmail, YouTube, Maps o Chrome.
Google e i Social, un amore mai sbocciato
Il pallino del social network è sempre stata una delle più grandi ossessioni in casa Google. In tutti i modi l'azienda ha provato a inserirsi nel settore, ma sempre con risultati piuttosto scarsi. Nel 2004 si tentò la strada Orkut, che doveva diventare una comunità di amici fidati, tra gruppi di persone con gli stessi interessi. Nessuno si filò di striscio la novità, che comunque acquisì un po' di notorietà in Brasile. Dello stesso tenore furono Google Buzz, lanciato nel 2011 per contrastare Twitter, e Google Wave, arrivato nel 2009 tra grandi proclami ma sparito solo un anno dopo, sostituito poi, sempre nel 2011, dall'arrivo di Plus. Erano gli anni dell'esplosione social, con Facebook e Twitter ormai stabilmente realtà del mercato e fonte di ispirazione perenne per chi voleva entrare nel loro stesso campo di influenza. Quello che Mountain View tentò di fare fu proprio prendere il meglio tra i due sistemi e tentare di crearne un ibrido per i suoi utenti. L'obiettivo era quello di sfruttare il proprio bacino di utenti e regalargli un servizio valido, fresco e profondo. Attirare pubblico non fu difficile e la crescita, come già detto, fu enorme, soprattutto nel primo periodo. Sin da subito, però, il coinvolgimento degli utenti fu sotto la media: perché usare un servizio che offriva più o meno le stesse cose che si trovavano in social ben più validi e navigati?
I motivi del fallimento
L'entusiasmo di Google intorno al suo Plus è durato poco più di tre anni, momento in cui l'azienda ha capito di aver fatto un clamoroso buco nell'acqua. Nell'idea iniziale, infatti, il social doveva essere un veicolo di informazioni utili, un modo per gli utenti per trovare ciò che le cerchie di amici decidevano di condividere con loro. Le cerchie, alla base di tutto l'ecosistema, erano un'idea più che mai vincente, con gli utenti che potevano creare diverse categorie di amici, con diversi livelli di accessibilità, magari divise per interessi, gradi di parentela o amicizia. Si potevano insomma creare gruppi diversificati e coerenti, tutti con una propria identità, che dovevano permettere un accesso quanto mai rapido alle informazioni. Questa filosofia è stata via via snaturata nel tentativo di inseguire chi un quegli anni stava avendo successo, Facebook e, in misura minore, Twitter. Plus cominciò a essere infarcito di sempre maggiori funzioni, a diventare confuso, a mischiare più stili per cercare di accontentare tutti, fallendo però miseramente in quella che doveva essere la sua missione iniziale. Era in tutto e per tutto uguale ai competitor, una copia carbone magari più carina, ma che comunque non offriva nessuna reale novità. Tutto questo ha portato a un coinvolgimento della mole di iscritti pari a zero e a un successivo e inesorabile abbandono anche delle aziende, che non hanno mai ritenuto conveniente investire tempo e denaro in Plus, social con una sterminata mole di utenti silenziosi e anonimi.
Le conseguenze
Google+ era una creatura morta da tempo. La sua chiusura era attesa e per i vertici non sarà certo un dramma concludere definitivamente l'avventura. La strategia di Google con i suoi prodotti è sempre stata molto sperimentale, con l'azienda sempre pronta a rischiare, a lanciarsi a capofitto in novità incredibili e a prendersi i rischi di un possibile fallimento senza battere troppo ciglio. Una politica che ha regalato grandi tonfi ma anche incredibili successi e che continuerà a essere portata avanti anche in futuro. Hanno tentato e non ci sono riusciti, ci riproveranno in futuro in qualche altro modo. Il vero problema, forse, è la fuga di dati, la falla nella sicurezza che ha intaccato la credibilità stessa dell'azienda. Dimostrarsi così fragili, soprattutto in questo periodo, con Cambridge Analytica sullo sfondo, potrebbe portare conseguenze non certo piacevoli. Un danno prima di tutto economico, con un già registrato calo in borsa dell'1% e una perdita di 8 miliardi di dollari. A peggiorare ulteriormente la situazione il fatto che Google abbia in qualche modo provato a insabbiare la cosa, probabilmente ritenendo che i dati rubati non avrebbero creato danni agli utenti o scatenato un uso improprio. Eppure la vulnerabilità ha esposto gli utenti a rischi di non poco conto e potrebbe altresì far scattare una multa da parte dell'Unione Europea, con il nuovo Gdpr che obbliga le aziende ad avvertire su eventuali falle entro 72 ore. C'è poi anche un danno d'immagine da non sottovalutare. Un'azienda sempre al centro della scena come Google, che possiede i dati di milioni di persone e li utilizza come moneta di scambio per i suoi interessi economici, deve fare in modo di tutelare quei dati a tutti i costi, dimostrare agli utenti di poterli almeno in parte preservare, di tenerci, dare una parvenza di privacy che, con questa fuga, è stata ulteriormente compromessa e poi peggiorata dalla scellerata decisione di nascondere il tutto sperando finisse sotto silenzio. La chiusura di Google+ potrebbe davvero essere l'ultimo dei problemi.
Google+: storia di un social network nato già morto
La chiusura di Google+, attesa da tempo, non è una sorpresa. Ecco i perché di una fine inesorabile, dietro cui si cela un problema ben più grave.
Google+ chiuderà i battenti e nessuno se ne accorgerà davvero. La grande promessa social di Mountain View è fallita dopo poco più di sette anni, tra l'indifferenza generale e uno scandalo sulla privacy degli utenti che ha dato il colpo di grazia a un progetto nato bene, sviluppato male e finito ancora peggio.
Entrare nella contesa di realtà da anni presenti sul web era uno dei grandi obiettivi della grande G, ma più di qualcosa è andato storto e, tra qualche mese, Plus chiuderà i battenti agli utenti comuni, dando tempo fino al 2019 per salvare post e dati prima di abbassare definitivamente la saracinesca. Ripercorriamo la storia e i motivi che hanno portato alla fine di questo progetto.
Lo scandalo finale
Per comprendere meglio questa storia occorre iniziare dalla fine, dalla goccia che ha fatto traboccare il vaso, dalla "scusa" che ha permesso a Google di chiudere senza troppi patemi un servizio che, probabilmente, sarebbe stato comunque spento. A svelare cos'è successo è stato il Wall Street Journal che, basandosi su fonti e documenti, ha scoperto una falla risalente alla scorsa primavera, con un gruppo di hacker che si sarebbe impadronito dei dati di almeno 500 mila utenti.
Il problema, scoperto da Google quasi subito, è stato in qualche modo nascosto e insabbiato per evitare guai e crolli di immagine alla "Facebook", ma è ora tornato drammaticamente alla luce. I dati trafugati riguarderebbero nomi, cognomi, indirizzi e-mail, dati di residenza, occupazione e stato civile, tutte informazioni sensibili di un certo peso e importanza. Ignota la causa della fuga di dati, mentre Mountain View ha cercato di correre ai ripari, promettendo nuove restrizioni per la tutela delle informazioni degli utenti e preparando nuovi vincoli su prodotti chiave come Android e Gmail.
A tutto questo si è aggiunta la chiusura ai consumatori di Plus. Un addio indolore, con il 90% degli utenti che ormai trascorreva sul social meno di 5 secondi a sessione. Era diventato praticamente inesistente.
Crollo verticale
Capire in che modo si è sviluppata la parabola discendente di Google+ è impresa piuttosto ardua. Da anni, infatti, non esistono dati ufficiali sugli utenti iscritti, su quelli attivi e sulla loro permanenza all'interno del servizio. I possessori di un account Plus, a grandi linee, si dovrebbero aggirare tra i 2 e i 3 miliardi, tutti frutto di una politica piuttosto invasiva che obbligava gli utenti a creare un account per il social per poter utilizzare tanti servizi Google ben più importanti.
Gli ultimi dati ufficiali sugli utenti attivi parlavano di 540 milioni di presenze nel 2014 e 440 nel 2016. Nel 2015, ad esempio, solo un utente su dieci aveva postato qualcosa sulle pagine di Plus, quasi tutti commenti su YouTube. Alcuni blogger hanno stimato che, nonostante i 2 miliardi di iscritti, solo 4 o 6 milioni potevano considerarsi davvero attivi.
Colpa di una politica per nulla lungimirante di Google, che aveva obbligato l'accesso a utenti e aziende, senza curarsi di regalare contenuti e opzioni che giustificassero una permanenza che andasse ben oltre un'iscrizione impossibile da evitare. Molti degli iscritti a Plus non l'hanno praticamente mai usato o si sono ritrovati inconsapevolmente al suo interno, solo per poter usare Gmail, YouTube, Maps o Chrome.
Google e i Social, un amore mai sbocciato
Il pallino del social network è sempre stata una delle più grandi ossessioni in casa Google. In tutti i modi l'azienda ha provato a inserirsi nel settore, ma sempre con risultati piuttosto scarsi. Nel 2004 si tentò la strada Orkut, che doveva diventare una comunità di amici fidati, tra gruppi di persone con gli stessi interessi. Nessuno si filò di striscio la novità, che comunque acquisì un po' di notorietà in Brasile. Dello stesso tenore furono Google Buzz, lanciato nel 2011 per contrastare Twitter, e Google Wave, arrivato nel 2009 tra grandi proclami ma sparito solo un anno dopo, sostituito poi, sempre nel 2011, dall'arrivo di Plus.
Erano gli anni dell'esplosione social, con Facebook e Twitter ormai stabilmente realtà del mercato e fonte di ispirazione perenne per chi voleva entrare nel loro stesso campo di influenza. Quello che Mountain View tentò di fare fu proprio prendere il meglio tra i due sistemi e tentare di crearne un ibrido per i suoi utenti. L'obiettivo era quello di sfruttare il proprio bacino di utenti e regalargli un servizio valido, fresco e profondo.
Attirare pubblico non fu difficile e la crescita, come già detto, fu enorme, soprattutto nel primo periodo. Sin da subito, però, il coinvolgimento degli utenti fu sotto la media: perché usare un servizio che offriva più o meno le stesse cose che si trovavano in social ben più validi e navigati?
I motivi del fallimento
L'entusiasmo di Google intorno al suo Plus è durato poco più di tre anni, momento in cui l'azienda ha capito di aver fatto un clamoroso buco nell'acqua. Nell'idea iniziale, infatti, il social doveva essere un veicolo di informazioni utili, un modo per gli utenti per trovare ciò che le cerchie di amici decidevano di condividere con loro. Le cerchie, alla base di tutto l'ecosistema, erano un'idea più che mai vincente, con gli utenti che potevano creare diverse categorie di amici, con diversi livelli di accessibilità, magari divise per interessi, gradi di parentela o amicizia. Si potevano insomma creare gruppi diversificati e coerenti, tutti con una propria identità, che dovevano permettere un accesso quanto mai rapido alle informazioni.
Questa filosofia è stata via via snaturata nel tentativo di inseguire chi un quegli anni stava avendo successo, Facebook e, in misura minore, Twitter. Plus cominciò a essere infarcito di sempre maggiori funzioni, a diventare confuso, a mischiare più stili per cercare di accontentare tutti, fallendo però miseramente in quella che doveva essere la sua missione iniziale.
Era in tutto e per tutto uguale ai competitor, una copia carbone magari più carina, ma che comunque non offriva nessuna reale novità. Tutto questo ha portato a un coinvolgimento della mole di iscritti pari a zero e a un successivo e inesorabile abbandono anche delle aziende, che non hanno mai ritenuto conveniente investire tempo e denaro in Plus, social con una sterminata mole di utenti silenziosi e anonimi.
Le conseguenze
Google+ era una creatura morta da tempo. La sua chiusura era attesa e per i vertici non sarà certo un dramma concludere definitivamente l'avventura. La strategia di Google con i suoi prodotti è sempre stata molto sperimentale, con l'azienda sempre pronta a rischiare, a lanciarsi a capofitto in novità incredibili e a prendersi i rischi di un possibile fallimento senza battere troppo ciglio.
Una politica che ha regalato grandi tonfi ma anche incredibili successi e che continuerà a essere portata avanti anche in futuro. Hanno tentato e non ci sono riusciti, ci riproveranno in futuro in qualche altro modo. Il vero problema, forse, è la fuga di dati, la falla nella sicurezza che ha intaccato la credibilità stessa dell'azienda. Dimostrarsi così fragili, soprattutto in questo periodo, con Cambridge Analytica sullo sfondo, potrebbe portare conseguenze non certo piacevoli. Un danno prima di tutto economico, con un già registrato calo in borsa dell'1% e una perdita di 8 miliardi di dollari.
A peggiorare ulteriormente la situazione il fatto che Google abbia in qualche modo provato a insabbiare la cosa, probabilmente ritenendo che i dati rubati non avrebbero creato danni agli utenti o scatenato un uso improprio. Eppure la vulnerabilità ha esposto gli utenti a rischi di non poco conto e potrebbe altresì far scattare una multa da parte dell'Unione Europea, con il nuovo Gdpr che obbliga le aziende ad avvertire su eventuali falle entro 72 ore.
C'è poi anche un danno d'immagine da non sottovalutare. Un'azienda sempre al centro della scena come Google, che possiede i dati di milioni di persone e li utilizza come moneta di scambio per i suoi interessi economici, deve fare in modo di tutelare quei dati a tutti i costi, dimostrare agli utenti di poterli almeno in parte preservare, di tenerci, dare una parvenza di privacy che, con questa fuga, è stata ulteriormente compromessa e poi peggiorata dalla scellerata decisione di nascondere il tutto sperando finisse sotto silenzio. La chiusura di Google+ potrebbe davvero essere l'ultimo dei problemi.
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