Il CES del 2019, almeno giudicandolo a caldo, potrebbe essere il primo esempio di Consumer Electronics Show non gattopardesco degli ultimi anni. Almeno dall'esplosione dello smartphone in poi (2011-2012), per rimanere in tempi più recenti, il CES è servito alle varie case produttrici per svolgere un ruolo di vetrina sul futuro, mettendo su un piano più concreto le tecnologie del domani. Spesso in forma prototipale, a volte con successo, altre meno. Abbiamo visto di tutto, da televisioni 3D al 4K (oggi balzato a 8K), passando per schermi flessibili, robot, automobili self-driving e oggetti "smart" di ogni forma, colore e tipo; il tutto, ogni volta, qualche anno prima che la merce finale fosse effettivamente fruibile per i consumatori, ma lo spirito del CES è sempre stato un po' apertamente quello. Questo aspetto è rimasto immutato: chi nella scorsa settimana ha gironzolato per i corridoi dei convention center di Las Vegas ha potuto, come di consueto, fare un piccolo viaggio nel futuro, prima di essere ricatapultati nella realtà quotidiana. Quello che si è visto sugli scaffali è cambiato, a volte di molto, ancora una volta per non cambiare niente, e attendere che il tempo gestisca la trafila di problemi che accompagnano un prodotto dal suo stato di proof of concept ad un qualcosa che chiunque può acquistare.
Ma una cosa, quest'anno, è apparsa fortemente diversa - e non è solo il caso di segnalarla in quanto tale, racchiusa nel recinto del CES, bensì di inquadrarla in un'ottica più grande che vede questi tempi come un netto spartiacque fra, almeno, il recente passato e il prossimo futuro. E la parola chiave per comprendere cosa ha spezzato l'anello inesorabilmente circolare delle scorse edizioni dello show è collaborazione.
Da competizione a collaborazione
Benché il CES non sia un una fiera in cui si vende e si acquista, la competizione è sempre molto alta. I brand più importanti dell'industria tecnologica spendono fior di quattrini ogni anno per accaparrarsi l'attenzione dei media e aprire brevemente le porte dei loro cantieri, con stand giganteschi e campagne marketing imponenti anche dal punto di vista visivo. Questo spesso si trasforma in una gara a chi fa la voce più grossa, in uno spirito apertamente competitivo - fatta eccezione per Apple, che è sempre rimasta più che altro una presenza fantasma. Quest'anno, più che la solita competizione, quello che è emerso dagli stand è invece un modo di porsi molto più indirettamente collaborativo, che vede gli assistenti digitali al centro della questione. Da smart speaker che supportano più assistenti insieme (come i dispositivi Sonos con Alexa e il Google Assistant) a TV Samsung con applicazioni Apple (pensateci bene un secondo: un'app ufficiale iTunes per Tizen!), passando per il supporto di AirPlay 2 su televisori Vizio o Sony.
Ci si chiederà: il 2019 è l'inizio di una rivoluzione pacifica nel mondo tech che denigra i profitti per una ben più umana beneficenza nei confronti dei consumatori? Beh, non esattamente; ma come si accennava poc'anzi questa è una mossa che allude ad un cambio di paradigma molto più profondo nell'intero ambito tech.
Che, alla base, si può definire così: laddove fino ad oggi, prendendo lo smartphone come bandiera simbolo dei prodotti hardware, gli OEM si davano battaglia per offrire un prodotto superiore (e dunque convincere il consumatore ad acquistare un device piuttosto che un altro sulla base di caratteristiche hardware come la batteria, lo schermo, la fotocamera o il design), la guerra si sta ora spostando sul software.
Un software che non è più centralizzato e mero motore alla base dei suddetti prodotti hardware, bensì uno decentralizzato, che segue l'utente indipendentemente da dove egli sia e da che dispositivo utilizzi, e si adatta all'interno di un ecosistema che non fa più capo ad un oggetto principe (spesso lo smartphone), bensì, appunto, ad un assistente digitale fluido.
Gli assistenti digitali, cruciali nella loro fluidità
Ecco dunque che le sale del CES sono inondate di etichette quali "Work with Alexa", o "Google Assistant Connect". Persino Apple, che è storicamente rimasta la compagnia più chiusa ed autoreferenziale del mondo tech, ha dovuto adattarsi ed aprirsi in vista di un futuro molto diverso (di cui il declino delle vendite di iPhone non è che un primo passo, in un percorso dalla natura quasi fisiologica e non accidentale). Se l'approdo di iTunes su Windows prima e quello di Apple Music su Android poi poteva essere una notizia, poiché rappresentava un'anomalia dovuta a circostanze straordinarie (la diffusione capillare e dunque non più ignorabile dei due sistemi rivali al tempo del lancio), da oggi non potrà che essere sempre più la normalità. Il consumatore di domani non potrà pensare di (e non vorrà) costruire il proprio arsenale smart in base agli accordi che i brand riescono o meno a prendere, ma in base alla compatibilità.
Come sempre, sceglieranno il dispositivo migliore davanti ai loro occhi (e portafoglio), e si aspetteranno che il loro assistente di fiducia possa connettervisi senza problemi. E questo pare proprio sia stato capito, tanto dalle varie Google, Amazon e Apple - che rendono i propri assistenti-servizi compatibili con le terze parti - quanto dalla miriade di manufacturers, grandi e piccoli, che vogliono investire nell'oggettistica smart.
Restiamo su Apple per un attimo, per spiegare meglio il concetto: perché mai l'azienda di Cupertino, anziché spingere maggiormente le vendite di Apple TV, ha deciso di approcciare il tema dei servizi in modo diverso e annunciare la compatibilità delle tecnologie AirPlay e HomeKit su televisori costruiti da altri competitors? Il motivo è molto semplice: l'azienda ha capito che, un domani, un potenziale servizio TV alla stregua di Netflix o Hulu - che sarebbe alle porte - potrebbe configurarsi come una fonte di profitto non indifferente, ed è più importante che il consumatore Apple possa fruire di quel contenuto (pagando magari un abbonamento) sulla smart TV che già possiede, magari costruita da Sony o LG, senza essere obbligato a comprare un altro gadget che parla solo con il mondo Apple.
È l'esempio più lampante e pregnante di un cambio di paradigma epocale, che sposta l'attenzione dal singolo pezzo hardware ad un ecosistema controllato dal software (che si declina poi tanto nei servizi quanto, in altri casi, nelle intelligenze artificiali/assistenti digitali e nel cloud). La concorrenza, dunque, non andrà da nessuna parte, e diventerà anzi più feroce per via della nuova interdipendenza richiesta. Paradossalmente, i big player dovranno spendersi per passare dal vendere qualcosa di esclusivo a qualcosa di inclusivo. Ma, se il pericolo del lock-in verrà scongiurato del tutto (non obbligando dunque un consumatore ad acquistare o meno un prodotto per via di una negata compatibilità), nel lungo termine questa potrebbe essere una grande vittoria per i consumatori. Certo, a patto di rendere smart solo ciò che ne ha strettamente bisogno.
Il CES 2019 da il via all'era dei servizi e della cooperazione tra brand?
Il CES 2019 sancisce l'inizio di un fondamentale cambio di paradigma per tutto il mondo tech, partendo dagli assistenti digitali.
Il CES del 2019, almeno giudicandolo a caldo, potrebbe essere il primo esempio di Consumer Electronics Show non gattopardesco degli ultimi anni. Almeno dall'esplosione dello smartphone in poi (2011-2012), per rimanere in tempi più recenti, il CES è servito alle varie case produttrici per svolgere un ruolo di vetrina sul futuro, mettendo su un piano più concreto le tecnologie del domani. Spesso in forma prototipale, a volte con successo, altre meno.
Abbiamo visto di tutto, da televisioni 3D al 4K (oggi balzato a 8K), passando per schermi flessibili, robot, automobili self-driving e oggetti "smart" di ogni forma, colore e tipo; il tutto, ogni volta, qualche anno prima che la merce finale fosse effettivamente fruibile per i consumatori, ma lo spirito del CES è sempre stato un po' apertamente quello.
Questo aspetto è rimasto immutato: chi nella scorsa settimana ha gironzolato per i corridoi dei convention center di Las Vegas ha potuto, come di consueto, fare un piccolo viaggio nel futuro, prima di essere ricatapultati nella realtà quotidiana. Quello che si è visto sugli scaffali è cambiato, a volte di molto, ancora una volta per non cambiare niente, e attendere che il tempo gestisca la trafila di problemi che accompagnano un prodotto dal suo stato di proof of concept ad un qualcosa che chiunque può acquistare.
Ma una cosa, quest'anno, è apparsa fortemente diversa - e non è solo il caso di segnalarla in quanto tale, racchiusa nel recinto del CES, bensì di inquadrarla in un'ottica più grande che vede questi tempi come un netto spartiacque fra, almeno, il recente passato e il prossimo futuro. E la parola chiave per comprendere cosa ha spezzato l'anello inesorabilmente circolare delle scorse edizioni dello show è collaborazione.
Da competizione a collaborazione
Benché il CES non sia un una fiera in cui si vende e si acquista, la competizione è sempre molto alta. I brand più importanti dell'industria tecnologica spendono fior di quattrini ogni anno per accaparrarsi l'attenzione dei media e aprire brevemente le porte dei loro cantieri, con stand giganteschi e campagne marketing imponenti anche dal punto di vista visivo. Questo spesso si trasforma in una gara a chi fa la voce più grossa, in uno spirito apertamente competitivo - fatta eccezione per Apple, che è sempre rimasta più che altro una presenza fantasma.
Quest'anno, più che la solita competizione, quello che è emerso dagli stand è invece un modo di porsi molto più indirettamente collaborativo, che vede gli assistenti digitali al centro della questione. Da smart speaker che supportano più assistenti insieme (come i dispositivi Sonos con Alexa e il Google Assistant) a TV Samsung con applicazioni Apple (pensateci bene un secondo: un'app ufficiale iTunes per Tizen!), passando per il supporto di AirPlay 2 su televisori Vizio o Sony.
Ci si chiederà: il 2019 è l'inizio di una rivoluzione pacifica nel mondo tech che denigra i profitti per una ben più umana beneficenza nei confronti dei consumatori? Beh, non esattamente; ma come si accennava poc'anzi questa è una mossa che allude ad un cambio di paradigma molto più profondo nell'intero ambito tech.
Che, alla base, si può definire così: laddove fino ad oggi, prendendo lo smartphone come bandiera simbolo dei prodotti hardware, gli OEM si davano battaglia per offrire un prodotto superiore (e dunque convincere il consumatore ad acquistare un device piuttosto che un altro sulla base di caratteristiche hardware come la batteria, lo schermo, la fotocamera o il design), la guerra si sta ora spostando sul software.
Un software che non è più centralizzato e mero motore alla base dei suddetti prodotti hardware, bensì uno decentralizzato, che segue l'utente indipendentemente da dove egli sia e da che dispositivo utilizzi, e si adatta all'interno di un ecosistema che non fa più capo ad un oggetto principe (spesso lo smartphone), bensì, appunto, ad un assistente digitale fluido.
Gli assistenti digitali, cruciali nella loro fluidità
Ecco dunque che le sale del CES sono inondate di etichette quali "Work with Alexa", o "Google Assistant Connect". Persino Apple, che è storicamente rimasta la compagnia più chiusa ed autoreferenziale del mondo tech, ha dovuto adattarsi ed aprirsi in vista di un futuro molto diverso (di cui il declino delle vendite di iPhone non è che un primo passo, in un percorso dalla natura quasi fisiologica e non accidentale). Se l'approdo di iTunes su Windows prima e quello di Apple Music su Android poi poteva essere una notizia, poiché rappresentava un'anomalia dovuta a circostanze straordinarie (la diffusione capillare e dunque non più ignorabile dei due sistemi rivali al tempo del lancio), da oggi non potrà che essere sempre più la normalità. Il consumatore di domani non potrà pensare di (e non vorrà) costruire il proprio arsenale smart in base agli accordi che i brand riescono o meno a prendere, ma in base alla compatibilità.
Come sempre, sceglieranno il dispositivo migliore davanti ai loro occhi (e portafoglio), e si aspetteranno che il loro assistente di fiducia possa connettervisi senza problemi. E questo pare proprio sia stato capito, tanto dalle varie Google, Amazon e Apple - che rendono i propri assistenti-servizi compatibili con le terze parti - quanto dalla miriade di manufacturers, grandi e piccoli, che vogliono investire nell'oggettistica smart.
Restiamo su Apple per un attimo, per spiegare meglio il concetto: perché mai l'azienda di Cupertino, anziché spingere maggiormente le vendite di Apple TV, ha deciso di approcciare il tema dei servizi in modo diverso e annunciare la compatibilità delle tecnologie AirPlay e HomeKit su televisori costruiti da altri competitors? Il motivo è molto semplice: l'azienda ha capito che, un domani, un potenziale servizio TV alla stregua di Netflix o Hulu - che sarebbe alle porte - potrebbe configurarsi come una fonte di profitto non indifferente, ed è più importante che il consumatore Apple possa fruire di quel contenuto (pagando magari un abbonamento) sulla smart TV che già possiede, magari costruita da Sony o LG, senza essere obbligato a comprare un altro gadget che parla solo con il mondo Apple.
È l'esempio più lampante e pregnante di un cambio di paradigma epocale, che sposta l'attenzione dal singolo pezzo hardware ad un ecosistema controllato dal software (che si declina poi tanto nei servizi quanto, in altri casi, nelle intelligenze artificiali/assistenti digitali e nel cloud). La concorrenza, dunque, non andrà da nessuna parte, e diventerà anzi più feroce per via della nuova interdipendenza richiesta.
Paradossalmente, i big player dovranno spendersi per passare dal vendere qualcosa di esclusivo a qualcosa di inclusivo. Ma, se il pericolo del lock-in verrà scongiurato del tutto (non obbligando dunque un consumatore ad acquistare o meno un prodotto per via di una negata compatibilità), nel lungo termine questa potrebbe essere una grande vittoria per i consumatori. Certo, a patto di rendere smart solo ciò che ne ha strettamente bisogno.
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