Quella volta che internet ha salvato la comunicazione scientifica

Negli anni Sessanta la comunicazione accademica è andata in crisi: solo l'arrivo di internet e dell'open source hanno cambiato le cose.

Quella volta che internet ha salvato la comunicazione scientifica
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Chi frequenta le università, insegna e fa ricerca si trova spesso a dover consultare periodici e riviste di settore o pubblicazioni scientifiche. In questo caso, le possibilità a cui uno studente o un dottorando possono trovarsi di fronte sono due: la prima è quella che i prodotti editoriali e gli articoli che essi contengono siano a pagamento, talvolta con un paywall decisamente elevato (i cui costi sono fortunatamente sostenuti spesso direttamente dalle università) e la seconda prevede che la conoscenza venga resa disponibile in open access, cioè in formato del tutto gratuito e accessibile a tutti.
Ma come è possibile che la comunicazione scientifica si divida tra questi due estremi, uno a costo elevatissimo e uno a costo addirittura azzerato per l'utente finale? Molti ritengono - erroneamente - che un prezzo più basso significhi anche una minore scientificità degli articoli, ma le cose stanno molto diversamente: in realtà, la fisionomia attuale della comunicazione scientifica è in buona parte un risultato dell'arrivo dei computer e di internet nelle grandi università.

La crisi della comunicazione scientifica

Per capire come siamo arrivati alla comunicazione scientifica odierna dobbiamo fare un salto indietro nel tempo fino agli anni Sessanta, quando si è verificata la cosiddetta "crisi della comunicazione scientifica".

Fin dagli inizi del XX secolo, il grosso delle nuove conoscenze tecniche e scientifiche veniva fatto circolare tra gli esperti di settore tramite i periodici accademici, giornali altamente settoriali di stampo scientifico pensati per studenti e docenti universitari, che avevano una diffusione limitata al circuito dell'alta istruzione.
Negli anni Sessanta, tuttavia, il prezzo dei periodici accademici iniziò a salire rapidamente, al punto da rendere i loro abbonamenti insostenibili per i singoli studiosi, che iniziarono a rivolgersi alle biblioteche universitarie: queste ultime si abbonavano alle riviste più richieste dai propri lettori, che potevano condividerle tra loro tramite il classico prestito.
Un'ottima soluzione, se non fosse per due problemi principali: il primo era che presto i prezzi si alzarono ancora, al punto da diventare insostenibili anche per le biblioteche; il secondo consisteva, invece, nel fatto che non vi fossero chiare spiegazioni circa l'aumento dei prezzi, mentre i surplus finivano nelle casse degli editori.

A questo punto occorre spiegare come funziona una rivista scientifica: il grosso dei collaboratori è composto da ricercatori che scrivono per fare carriera - e che spesso lo fanno in maniera gratuita - nonostante le riviste che condividono i loro scritti siano a pagamento. Ma non è finita qui: i ricercatori sono anche chiamati a fare peer review per gli articoli altrui, cioè a controllare che gli altri testi presenti sulle riviste siano validi dal punto di vista scientifico. Anche in questo caso, in modo totalmente gratuito.

Si crea così un cortocircuito: il ricercatore, che viene (giustamente) pagato dall'università per condurre i propri studi, ne pubblica gratis i risultati sulle riviste accademiche, che poi vengono profumatamente pagate dalle università per renderle accessibili ai propri docenti, studenti e ricercatori. Un circolo vizioso che spinge il mondo dell'università - e, nel caso delle istituzioni pubbliche, i contribuenti - a pagare due volte il lavoro dei ricercatori, senza che questi ricevano però un doppio compenso.

Con costi degli abbonamenti crescenti e fondi istituzionali ridotti all'osso, anche le grandi biblioteche hanno smesso di acquistare le riviste scientifiche, "tagliando" sui periodici meno letti dagli utenti, dunque su quelle conoscenze considerate di nicchia.

La conseguenza principale di questo cambiamento non è stata, come i più ottimisti potrebbero sperare, una riduzione dei costi degli abbonamenti da parte degli editori, ma la semplice cancellazione delle riviste meno redditizie da parte di questi ultimi. Cancellare riviste, però, ha a sua volta un impatto importante sul mondo dell'università per due motivi
Il primo, più evidente, è che la diffusione della conoscenza stessa, specie se altamente tecnica e settoriale, viene intaccata perché gli editori si rifiutano di pubblicare giornali e articoli privi di un ritorno sicuro in termini di vendite.
Il secondo, invece, è che anche le carriere dei ricercatori arrivano a una fase di stallo perché le pubblicazioni diminuiscono. Con il calare di queste ultime, infine, diventa più difficile anche pubblicare i propri saggi, fare carriera e contribuire in modo tangibile al progresso nelle proprie discipline di riferimento. Questo cortocircuito, che in parte esiste ancora oggi, fu alla base della crisi della comunicazione scientifica degli anni Sessanta.

La rivoluzione dell'Open Access

Negli anni Sessanta, nel frattempo, si stavano anche timidamente affacciando al mondo le tecnologie di computer e reti, mentre nel 1969 venne fondato ARPANET.

Le università furono tra le prime istituzioni a fare utilizzo del nucleo di Internet, tanto che tra i primi "nodi" di ARPANET troviamo proprio due college americani, ossia il MIT e Harvard.
Man mano che, nei decenni successivi, i computer e Internet si diffusero in tutto il mondo, emerse anche un nuovo movimento, mai visto prima di allora: il movimento per l'open access, ossia per il libero accesso a tutte le risorse presenti sul web, come linee di codice, programmi, informazioni di ogni genere e, poco più tardi, anche il sapere accademico e scientifico, che all'epoca era ancora nella sua totalità soggetto a pagamenti esorbitanti. Intanto, alcuni editori avevano trasferito online parte dei propri periodici, in modo da favorirne la trasmissione a più università, magari all'estero, riducendo anche il prezzo di produzione delle singole copie tramite l'eliminazione dei processi di stampa e di spedizione.

A questo punto, però, Internet aveva cambiato le regole della diffusione del sapere: i ricercatori, che non erano pagati, non trovavano più corretto "rinchiudere" gli esiti delle proprie ricerche dietro dei "paywall" spesso ritenuti ingiusti e speculativi; studenti e docenti, che spesso non potevano accedere ai periodici di loro interesse, erano sempre più inclini a informarsi direttamente in rete, grazie anche alle elevate possibilità di comunicazione e collaborazione offerte dal web.

Nel 1999, dopo trent'anni dalla nascita di ARPANET e dopo svariati tentativi, nacque OAI, o Open Archive Initiative, che aveva lo scopo di favorire l'uso delle forme di condivisione in accesso libero anche per le ricerche scientifiche e accademiche. Addio alle riviste e agli editori, dunque: tutti gli articoli redatti dai ricercatori venivano pubblicati direttamente su database liberi e ad accesso gratuito, di proprietà delle università stesse o di enti a esse collegati .
Certo, i ricercatori non venivano ancora retribuiti, ma quantomeno le università non dovevano pagare due volte per accedere al sapere e, soprattutto, quest'ultimo diventava aperto a tutti, a prescindere dallo status economico dello studente, del ricercatore o dell'appassionato. Una vera rivoluzione.

Come ogni rivoluzione, però, anche quella dell'open access aveva (e ha tuttora) dei problemi: nel 1991, ben prima di OAI, era nato ArXiv, il primo database di articoli open access al mondo, che oggi conta qualcosa come due milioni e passa di testi accademici al proprio interno.

Accanto ad ArXiv e OAI, poi, si sono costituite numerose banche dati alternative, rendendo molto più frammentaria la ricerca degli articoli nei meandri di Internet, anche a causa del fisiologico aumento della produzione di saggi e ricerche permesso dal web. Nel 2012, per esempio, viene fondato anche PLoS, o Public Library of Science, che negli ultimi anni è arrivato ai vertici della comunicazione open access.
Intanto, però, anche gli editori tradizionali si sono ritagliati una nicchia di pubblico e continuano a sopravvivere, benché in maniera meno pervasiva che in passato, continuando a mantenere prezzi elevatissimi per le proprie riviste accademiche e continuando a non pagare i redattori e i recensori dei propri articoli.

Insomma, c'è ancora tanto da fare, ma se oggi la comunicazione de sapere scientifico è in larga parte accessibile e gratuita, una buona fetta del merito è sicuramente di Internet.