L'importanza di chiamarsi iPhone, chiave di volta del nuovo mondo

Per molti è soltanto uno smartphone come tanti, eppure iPhone è stato un dispositivo in grado di cambiare un'intera azienda e il mondo.

L'importanza di chiamarsi iPhone, chiave di volta del nuovo mondo
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Quando si parla di tecnologia spesso si tende a esagerare l'importanza e la grandezza di alcuni avvenimenti. In un mondo nel quale "groundbreaking" e "disruptive" sono forse gli aggettivi più comuni, è difficile capire cosa esattamente lo sia, e quale novità sia destinata a durare e cambiare effettivamente le nostre vite. Quattro o cinque anni fa sembrava che il 3D fosse la prossima rivoluzione, mentre ora quando si va al cinema il più delle volte si cercano le proiezioni classiche e non quelle con gli occhialetti scuri e buffi. I sensori di movimento nei videogiochi hanno quasi seguito la stessa fine, così come prima di loro il betamax, i Mini-Disc o i dispositivi weareable, che pur se ancora in vita non sono certo quella rivoluzione che parevano essere non più di un paio di anni fa.
Esiste però una piccola cerchia di prodotti che "ce la fa" e non si limita a imporsi, ma cambia proprio il modo di vivere delle persone. La televisione, per dirne una, il walkman probabilmente, e più recentemente, senza ombra di dubbio, l'iPhone. Quando il 9 gennaio 2007 Steve Jobs alle 9:41 (funfact: è per questo che in tutte le foto promozionali l'orario degli iPhone segna sempre 9:41) lo presenta sul palco del Macworld Expo si ha chiaramente l'idea che qualcosa di grosso stia per succedere, che il modo in cui ci si interfaccia con il proprio telefono sia destinato a cambiare. E parecchio.

Modus operandi

Tra il 9 gennaio e il 29 giugno, giorno dell'uscita dei negozi americani di iPhone, si è anche definitivamente affermato un modus operandi che ha accompagnato l'uscita di ogni nuovo prodotto Apple (iPad o Apple Watch, per dire), che è composto sostanzialmente dalla preventiva contrapposizione di due schieramenti opposti che fanno impallidire a confronto Guelfi e Ghibellini, Montecchi e Capuleti, Directioneers e Beliebers. Dieci anni fa questa pratica non era ancora così consolidata, anche perché i temi in campo erano altri. Allora infatti si discuteva di cose che oggi si danno per scontate: la presenza o meno di flash (e non parliamo di Justice League), il modulo 3G, che il primo iPhone proprio non aveva, la totale assenza di una tastiera fisica, considerata praticamente da tutti imprescindibile per poter scrivere SMS con una certa rapidità.
Quello che però in pochi avevano capito era che Apple per la prima volta (o quantomeno con inedita convinzione) dotava uno smartphone di un sistema operativo suo, che non fosse una release più o meno ottimizzata di Symbian o chi per lui: il primo OS per iPhone era evidentemente limitato e immaturo (non c'era il copia e incolla per dire, non si potevano trasferire file via Bluetooth e l'attivazione del terminale doveva per forza passare da iTunes su computer), e nonostante questo era il passo più avanti e significativo per l'usabilità dei telefoni che fosse mai stato fatto dai tempi dell'introduzione del tastierino numerico.

Scuola Ive/Jobs

iPhone portava con sé non solo la consueta dose di design e futuro (furbetto) alla portata di tutti di Ive e Jobs, ma anche un modo totalmente nuovo di concepire il rapporto con il telefono, entrando ufficialmente nell'era degli smartphone. L'assenza della tastiera, oltre a dare ad iPhone il suo iconico aspetto, ha obbligato gli sviluppatori a pensare un'intera interfaccia a portata di dita, che fosse quanto più naturale e intuitiva possibile. Gesti come lo scroll naturale (con cioè il senso invertito rispetto a quello su PC), il "pinch to zoom" o lo "swipe" per cambiare pagina o sbloccare il telefono prima semplicemente non esistevano, o erano relegati ad applicativi dalla scarsissima diffusione. Dover poi accettare il fatto che senza tastiera si sarebbe scritto con più errori ha portato all'elaborazione di algoritmi di auto-correzione, cosa peraltro sulla quale Apple sembra colpevolmente in ritardo nei confronti di Google.
È difficile immaginare un oggetto più impattante sulla nostra società dello smartphone, e questo perché pur creando un prodotto in tutto e per tutto di lusso, questo si è declinato in un milione di diverse versioni, raggiungendo praticamente chiunque e contribuendo più di qualsiasi altra cosa alla nascita della società iperconnessa nella quale stiamo vivendo ora. Se insomma internet è la mente, gli smartphone ancora più dei PC sono il braccio, e iPhone è stato il capofila di una serie di dispositivi che hanno permesso anche alla compianta "casalinga di Voghera" di poter sapere in qualsiasi momento cosa succede in tutto il resto del mondo. E fa nulla che la suddetta poi metta like solo a gruppi di antivaccinisti o giochi a Candy Crush, perché in potenza potrebbe pure imparare da autodidatta il giapponese o fondare una start-up insieme a quattro ragazzotti californiani.

Una nuova via

iPhone non ha solo contribuito a cambiare la società, ma ha trasformato Apple in qualcosa di diverso, in una compagnia che non solo produce hardware e software ma anche (sopratutto, di questi tempi) la proprietaria di una delle più grandi piattaforme di distribuzione di software, dalla quale ovviamente guadagna come non mai. All'uscita di iPhone Apple Store non esisteva nemmeno, e anche nelle sue prime versioni era una repository non sempre ben organizzata di applicazioni che spesso si faceva troppa fatica a trovare.
Era però chiaro sin da subito la portata dell'innovazione, tanto che il copy della campagna di lancio, "There's an app for that", è diventata poi espressione di uso comune, e App Store l'antonomasia di un negozio che venda software su uno smartphone. Il suo giro di affari, esattamente come fece Steam per Valve, ha necessariamente modificato alcune strategie aziendali di Apple, trasformando i suoi dispositivi in un'unica galassia connessa di prodotti che condividono account e acquisti, oltre che una fonte di guadagno impressionante.

C'è ancora una cosa però, che forse per il nostro piccolo orticello è la più importante, a cui iPhone ha dato il "la", ed è quel processo di universalizzazione del videogioco di cui oggi siamo tutti testimoni. Perché forse potrà far storcere il naso a qualcuno, ma non c'è stato niente come il gioco mobile che abbia di fatto sdoganato il videogioco come passatempo per tutti, e non solo per un determinato target demografico.
Certo, la storia magari l'hanno fatta i soliti nomi, ma se oggi si può giocare senza pregiudizi in metropolitana e annullarsi per qualche ora davanti a uno schermo è perché con i vari Canabalt, Candy Crush o Angry Birds hanno iniziato a farlo tutti, dal manager di ritorno dalla riunione alla ormai affezionata casalinga, rendendo naturale una cosa che forse per noi - la generazione SEGA e Nintendo - lo è sempre stata, ma per il resto delle persone no.

E poi, sopratutto, gli smartphone hanno allargato il concetto di videogiocatore, facendolo uscire da quella dimensione un po' costretta e rendendo il concetto universale e universalmente accettato. E fa nulla che questo abbia portato alla luce quanto reazionario possa essere il videogiocatore che si definisce hardcore, perché niente negli ultimi dieci anni, ma anche nei precedenti venti, ha reso così pop e universalmente riconosciuta quella passione che per molti era fatta di sole camerette e gioco in solitaria. iPhone non ha certamente cambiato il mondo da solo, ma di quel cambiamento ne è la chiave di volta.