Stati Uniti VS Cina: la nuova frontiera della guerra sono i chip

Tra Washington e Pechino le tensioni sono alle stelle: la “guerra dei chip” potrebbe cambiare per sempre il mondo della tecnologia.

Stati Uniti VS Cina: la nuova frontiera della guerra sono i chip
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Se c'è una cosa che l'ultimo triennio ha insegnato alle Big Tech è che i chip sono una risorsa scarsa e strategica, certamente non illimitata e da usare con enorme attenzione.
La consapevolezza sull'importanza del silicio e sulle sue lavorazioni è arrivata anche in politica, come dimostra l'approvazione del CHIPS Act da parte della Casa Bianca lo scorso settembre.
La pandemia da Coronavirus ha evidenziato che le catene produttive globali dei chip non sono indistruttibili come molti pensavano, mentre la guerra russo-ucraina ha fatto schizzare il prezzo dei derivati del silicio alle stelle.
Da qualche mese a questa parte, però, è un'altra questione aperta a generare timori nel settore tecnologico, nell'economia globale e persino nelle già tese relazioni internazionali post-Covid: stiamo parlando della guerra dei chip tra Stati Uniti e Cina, che nel giro di poche settimane si è imposta nel dibattito internazionale e nella politica interna, tanto di Washington quanto di Pechino.

Un conflitto che parte dalle materie prime

Il termine "guerra dei chip", o "chip war" in inglese, viene utilizzato già da anni dalla stampa, specie quella più sensazionalista del panorama statunitense. Tuttavia, da un punto di vista prettamente accademico l'istituzionalizzazione della guerra dei chip nel dibattito tra gli studiosi di relazioni internazionali è avvenuta relativamente di recente, con il saggio "Chip War: The Fight for the World's Most Critical Technology" di Christopher Miller, professore di Storia Internazionale alla Tufts University e coordinatore del bureau dedicato all'Eurasia del Foreign Policy Research Institute.

Nel saggio, le guerre dei chip sono presentate in prospettiva storica, al punto che l'autore le fa iniziare diverse decadi fa, insieme alla competizione economica tra USA e Cina e allo sviluppo dell'informatica, almeno a partire dalla nascita dell'economia socialista di mercato e del "socialismo con caratteristiche cinesi" negli anni Ottanta. La tesi di Miller è semplice: i chip sono il nuovo petrolio, una risorsa scarsa, limitata ma necessaria alla vita di tutti i giorni in ogni Paese del mondo.
Sarà banale, ma ripeterlo fa sempre bene: i chip sono ovunque, dai PC agli elettrodomestici, dalle automobili ai dispositivi medici, sino ad arrivare ai nostri amati smartphone. Proprio per questo, spiega Miller, tra le due superpotenze globali si sarebbe innescata una vera e propria corsa ai chip e alle risorse strategiche per produrli.

La Cina è stata particolarmente "aggressiva" in tal senso. In particolare, Pechino è riuscita ad aggiudicarsi un quasi-monopolio sulle Terre Rare, anche grazie ad una collocazione geografica estremamente favorevole delle miniere, in gran numero concentrate proprio in estremo oriente, dalla Siberia alla Cina meridionale.

Laddove non arrivano l'estensione territoriale del Paese o gli accordi con le potenze alleate, la Cina sfrutta l'arma economica degli aiuti e dei prestiti internazionali, specie mediante progetti geoeconomici globali come la "Belt and Road Initiative", o BRI, ma anche nota come "Nuova Via della Seta".
I progetti della BRI sono di grande impatto soprattutto in Africa, dove vengono utilizzati (anche) per l'ottenimento di miniere e giacimenti di risorse strategiche per il settore tecnologico, benché il continente resti in gran parte povero di silicio e terre rare propriamente dette.

Tramite i sistemi legati ai prestiti a interesse, la Cina riesce ad assicurarsi una grande fetta della produzione delle miniere di minerali strategici dell'Africa, che così alimentano la sua economia interna.
Non solo: Pechino sfrutta il sistema dei debiti collegato alla BRI per ottenere materiali a prezzi bassissimi, oppure per garantirsi concessioni esclusive sui giacimenti minerari più ricchi, che spesso vengono collegati alla madrepatria mediante porti, aeroporti, strade e reti di infrastrutture costruiti dalla Cina e pagati, sempre a debito con Pechino, dai Paesi membri della BRI.

Ovviamente, ciò non significa che gli Stati Uniti siano rimasti a guardare: al contrario, anche Washington ha accordi commerciali esclusivi con partner internazionali e osteggia apertamente i progetti geoeconomici cinesi nei principali contesti multilaterali.

Proprietà intellettuali, brevetti e sanzioni internazionali

Visto che la Cina ha in pugno il grosso delle risorse minerarie destinate all'industria tecnologica, qualcuno potrebbe pensare che essa abbia vinto in partenza la guerra dei chip. Le cose, però, non stanno così per almeno due motivi.

Il primo è che accanto a Pechino anche gli Stati Uniti e l'Australia possiedono grandi giacimenti di terre rare e, dunque, riescono a riequilibrare, benché solo parzialmente, lo svantaggio geografico di cui il mondo occidentale soffre.
Il secondo motivo, nonché il più importante, riguarda la generalizzata arretratezza dell'industria tecnologica cinese rispetto a quella dei maggiori rivali globali, come gli Stati Uniti, il Giappone e persino Taiwan e il Vietnam. La questione, qui, si biforca: da una parte, infatti, la Cina soffre di un fisiologico scarto di qualche anno rispetto al mondo occidentale (o comunque che guarda agli USA) per la produzione di chip; dall'altra, invece, Pechino non riesce a produrre brevetti e innovazioni tecnologiche in quantità sufficientemente alta da restare al passo con il resto del pianeta.
Ciò dipende essenzialmente dal fatto che molti Paesi, Stati Uniti in primis, hanno ristretto l'accesso cinese alle proprie tecnologie brevettate con delle sanzioni, che per esempio hanno comportato una battuta d'arresto all'installazione delle reti 5G in Cina e dei modem 5G sugli smartphone Huawei, i quali non a caso restano ancorati alla tecnologia 4G per la loro connettività mobile.

La questione dei brevetti potrebbe sembrare secondaria, ma in realtà non lo è affatto. La chiusura dei sistemi internazionali dei brevetti, infatti, ha generato un diffuso ricorso cinese al furto di proprietà intellettuali straniere e americane in particolare.

Ali Wyne, policy analyst del Dipartimento di Scienze Politiche e Difesa della RAND Corporation, ha spiegato nel suo saggio "America's Great-Power Opportunity" che proprio i furti di proprietà intellettuale sono stati un forte fattore di tensione tra Washington e Pechino negli ultimi anni, al punto da condurre, ancor prima dei timori di sicurezza nazionale e della competizione con i prodotti hi-tech americani, al ban di Huawei negli Stati Uniti da parte dell'amministrazione Trump nel 2019.

In effetti, la questione di Huawei è uno dei fronti principali della guerra dei chip, o quantomeno della sua fase attuale. Non è un caso che, dopo un allentamento delle sanzioni contro l'azienda negli scorsi mesi, la Casa Bianca sia tornata a colpire Huawei con quella che, se confermata, potrebbe essere la misura più dura in assoluto, ovvero un blocco totale dell'azienda dal mercato americano, che a pioggia potrebbe innescare una serie di sanzioni e contro-sanzioni tra le due superpotenze, trascinando altre aziende cinesi nella blacklist americana, ZTE per prima.

D'altro canto, l'uso di dispositivi Huawei per lo spionaggio internazionale è stato ormai confermato da tempo presso istituzioni come l'Unione Africana, il Pentagono e diversi altri centri politici internazionali, tra cui - forse - anche l'Unione Europea e la Casa Bianca.

Accanto allo spionaggio, il furto di proprietà intellettuali sembra essere una delle attività più lucrative per i gruppi hacker sponsorizzati da Pechino, e i prodotti Huawei potrebbero essere una perfetta backdoor per penetrare i sistemi esteri di telecomunicazioni, specie quando vengono utilizzati nelle pubbliche amministrazioni, nella burocrazia e nelle grandi aziende.
Si torna così alla questione della BRI: Huawei è anche uno dei fornitori principali di prodotti per la Digital Silk Road, la controparte sul web della Nuova Via della Seta di Pechino. In questo contesto, è facile capire perché gli Stati Uniti abbiano deciso di bloccare l'utilizzo dei modem Huawei in tutti gli uffici pubblici statali e federali, pur focalizzandosi su motivazioni di sicurezza nazionale e arrivando persino a citare l'argomento del controllo remoto delle testate nucleari per convincere l'opinione pubblica della necessità di un "pugno duro" contro la compagnia.

I tempi del progresso tecnologico

Senza i brevetti esteri, a prescindere dalla forma in cui essi siano stati ottenuti, la Cina si trova indietro rispetto agli USA sia in termini di tecnologie "finite" che per quanto riguarda i nodi produttivi dei chip di nuova generazione.

Al momento, CPU, GPU e tutti gli altri prodotti derivati dal silicio realizzati in Cina non sono neanche lontanamente paragonabili alle controparti realizzate negli Stati Uniti, in Corea del Sud o a Taiwan: il caso dello sviluppo della scheda video cinese MTT S80 è emblematico in tal senso, indietro di generazioni rispetto a NVIDIA e AMD.
I casi "illustri", però, sono molteplici: per fare un esempio più vicino alle sensibilità occidentali, i chip HiSilicon Kirin di Huawei hanno generato non pochi grattacapi all'azienda, portandola a perdere competitività in tutto il mondo per via della loro minore ottimizzazione e delle loro performance incomparabili con quelle dei SoC di Qualcomm. Non a caso, pur avendo una foundry in casa, Huawei ha lanciato i suoi Mate 50 con dei chipset targati Qualcomm, sfruttando un breve periodo di allentamento delle sanzioni americane per rinsaldare la sua collaborazione con il chipmaker di San Diego.

In generale, però, è ovvio che l'industria tecnologica cinese sia vari passi indietro rispetto a quella americana: nulla di insormontabile, ma per mettersi in pari con l'occidente ci vorranno anni.

Certo è anche che, dalla parte opposta, l'estensione della chip war agli alleati americani potrebbe spingere la Cina a premere sempre di più sull'acceleratore nel tentativo di recuperare terreno sugli USA prima di essere tagliata fuori dal sistema internazionale delle forniture dei chip. D'altro canto, il fatto che già il Giappone e l'Olanda siano in procinto di imporre lo stop alle esportazioni verso Pechino di Nikon, Tokyo Electronics e ASML potrebbe rivelarsi un gravissimo scossone per l'industria dei chip cinesi.

Andamento dei tassi di crescita cinesi tra il 2011 e il 2027 (fonte: IMF)

Previsione dell'andamento della popolazione cinese fino al 2100 (fonte: WEF)

Intanto, Pechino favorisce l'autarchia tecnologica nazionale e lo fa con la collaborazione delle Big Tech nazionali.
Per esempio, il PCC occupa posizioni apicali nei board dirigenziali di compagnie come Tencent, Baidu e Alibaba, tutte strettamente collegate al digitale e alla tecnologia. Queste tre enormi corporazioni, insieme a produttori come Huawei e Xiaomi, hanno dato vita ad un gruppo di ricerca nazionale sui chip sostenuto da enormi investimenti pubblici, nell'ordine delle centinaia di miliardi di Dollari, per ottenere la supremazia tecnologica sia per volumi che per qualità dei prodotti entro il 2030.

Difficile prevedere se la Cina riuscirà nel suo obiettivo: dalla pandemia, infatti, l'economia del colosso asiatico ha iniziato a rallentare, e non sembrano esserci segni a favore di una ripresa nell'immediato futuro. In più, la leadership di Pechino sembra essersi fatta cogliere impreparata dal rallentamento dei tassi di sviluppo economico, perciò i finanziamenti promessi all'industria hi-tech potrebbero contrarsi nel giro di qualche anno.

Tutto questo, ovviamente, ammesso che la Cina decida di competere in maniera legittima dal punto di vista del diritto internazionale: Pechino potrebbe risolvere il grosso dei suoi problemi tecnologici con una mossa prettamente politico-militare, ovvero l'invasione di Taiwan mettendo fine alla Repubblica insulare, sulla quale la Cina continentale ha una pretesa storica e attorno a cui negli ultimi mesi si sono concentrate le ostilità diplomatiche del Paese.

Dell'eventualità di un attacco cinese abbiamo già parlato nel nostro speciale sul viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan dello scorso agosto, ma che, se in maniera del tutto ipotetica Pechino dovesse intentare un'azione di questo tipo riuscendoci, potrebbe entrare in possesso in maniera forzosa anche di TSMC, il produttore di chip più importante del Pianeta in termini di volumi, oltre a vantare i nodi più avanzati attualmente in commercio.
Certo, un attacco cinese contro Taiwan potrebbe innescare un intervento americano e causare potenzialmente un conflitto reale su scala globale, ma l'avvio delle ostilità della Russia in Ucraina contribuisce a rendere l'eventualità meno improbabile di quanto non fosse fino a inizio 2022.

Il vero problema di una guerra USA-Cina su Taiwan è però di natura economica: con una marina molto più potente di quella di Pechino, gli Stati Uniti potrebbero facilmente chiudere gli stretti di Taiwan e Malacca, bloccando tutti i flussi commerciali globali da e per la Cina nel giro di poche ore. Questo rende, di fatto, molto difficile che lo scenario peggiore possa realmente concretizzarsi.