
Ecco come si comporta un "pianeta cannibale": è davvero inquietante
I ricercatori dell’Università di Montreal hanno osservato e stabilito con adeguata certezza che WASP-76b è un vero e proprio pianeta cannibale. Ma di cosa si tratta realmente?
Ci troviamo ad analizzare in particolare un esopianeta noto per essere uno dei più caldi della sua galassia, oltre che uno dei pochi in cui è presente un elemento pesante mai scoperto prima. Dal recente studio pubblicato addirittura sulla prestigiosa rivista Nature però, i ricercatori affermano come questo pianeta ne avrebbe inghiottito un altro più piccolo in passato.
"Questo è il primo studio a misurare l'abbondanza di elementi chimici come nichel, magnesio e cromo con alta precisione in qualsiasi pianeta gigante", afferma l'astrofisico Mohamad Ali-Dib della New York University Abu Dhabi, coinvolto all’interno della ricerca. La sorpresa però, risiede nella quantità decisamente sproporzionata di questi elementi presenti all’interno del pianeta stesso.
"Le deviazioni dei loro valori rispetto a quanto previsto ci hanno portato a postulare che WASP-76b potrebbe aver inghiottito un altro pianeta molto più piccolo, con la stessa composizione chimica di Mercurio", dichiara lo stesso Ali-Dib.
Questa volta non parliamo dunque del momento in cui un buco nero mangia una stella, ciononostante si tratta di un processo ugualmente affascinante ma allo stesso tempo inquietante considerando che porta un pianeta ad inglobarne totalmente un altro, distruggendolo dunque per sempre.
Come se non bastasse i ricercatori hanno individuato anche una massiccia presenza di ossido di vanadio. È importante sottolineare come sia la prima volta che questa molecola viene rilevata in modo inequivocabile in un pianeta extrasolare.
"Questa molecola è di grande interesse per gli astronomi perché può avere un grande impatto sulla struttura atmosferica dei pianeti giganti caldi. Svolge un ruolo simile a quello dell'ozono essendo estremamente efficiente nel riscaldare l'atmosfera superiore della Terra", afferma l’astronomo Stefan Pelletier principale autore dello studio.
FONTE: nature
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