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Facebook sapeva che molte delle transazioni in-game di giochi come Angry Birds erano fatte dai bambini e senza il consenso dei genitori. Ma nonostante questo non è mai intervenuta e ha quasi sempre negato le richieste di rimborso.
Nel 2012 un gruppo di genitori ha organizzato una class action contro Facebook. Il motivo della contesa? Il social si sarebbe rifiutato di rimborsare i pagamenti fatti dai loro figli, con la loro carta di credito, ma senza il loro consenso.
In alcuni casi le spese virtuali dei minori ammontavano a diverse centinaia di dollari, con picchi di migliaia nei casi più eclatanti. Tutti acquisti in-game, all'interno dei giochi ospitati da Facebook: nelle carte si parla esplicitamente della prima versione di Angry Birds, ad esempio.
Le testimonianze di alcuni dipendenti hanno reso noto che l'azienda fosse a conoscenza della giovanissima età del giocatore medio: appena 5 anni. Inoltre nei documenti resi pubblici, nonostante l'opposizione di Facebook, si legge anche che l'azienda sapesse benissimo che buona parte delle entrate generate dai giochi venissero da transazioni fatte da dei minori, senza il consenso dei genitori. Secondo Gizmodo emergerebbe uno scenario piuttosto inquietante: l'azienda sapeva degli acquisti fatti dai ragazzi, sapeva che la maggior parte di questi è troppo giovane per capire che si trattava di soldi veri, e sapeva che i genitori in molti casi non erano a conoscenza della possibilità di effettuare acquisti in-game. Ma nonostante questo non è mai intervenuta per rendere più difficile questo genere di transazioni e ha negato il rimborso dei soldi nella maggior parte dei casi.
Facebook nel frattempo ha modificato le sue policy in materia di rimborsi. Segue una delle conversazioni trai dipendenti di Facebook emerse nel corso del processo.
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