Individuato il probabile ceppo ancestrale che causò la Peste medievale
INFORMAZIONI SCHEDA
Il mondo cinematografico e letterario ha affrontato e affronta spesso il tema della Peste o Morte Nera, la terribile pandemia che ha spazzato più della metà della popolazione Europa durante il XIV secolo e anche oltre, fino al 1800.
Ce la fanno immaginare con chiarezza, attraverso accurate descrizioni romanzesche o il vivido make-up dei set cinematografiche: grossi bubboni neri, piaghe, una morte fulminante dopo poche ore o giorni di febbre acuta (seppur vi siano state diverse forme di peste oltre a quella bubbonica: quella polmonare, ad esempio).
Eppure, nonostante sia entrata prepotentemente nell’immaginario comune associata ai topi, si sa poco sull’origine di questa terribile malattia.
Quello che è certo è che il suo nome scientifico è Yersinia pestis e si tratta di un batterio letale che fu introdotto in Europa dall’Oriente.
Un team di ricercatori provenienti da ogni angolo del globo, di cui fa parte la pluripremiata archeogenetica Maria Spyrou dell'Istituto Max Planck, ha analizzato una serie di ossa e denti provenienti da diversi luoghi dell’Europa, appartenenti a vittime della Peste.
È emerso che il batterio ha innumerevoli ceppi ma che tutti sembrano far capo ad un unico ceppo, che è stato chiamato LAI009, proveniente dalla Russia, in particolare dalla città di Laishevo, nella regione del Volga.
La piaga, in Europa, ebbe diverse ondate.
Addirittura, durante l’Impero Romano d’Oriente, tra il 541 e il 542, si verificò una terribile pandemia (anche se non è certo si trattasse proprio della Peste così come la conosciamo), seppur quella più celebre sia sicuramente quella del XIV secolo.
Sembra che LAI009 sia il capostipite dell’ondata medievale ma non è escluso che vi siano ceppi diversi e ancora più antichi della malattia e questo studio punta ad andare sempre più indietro nel tempo, a risalire la genealogia di Yersinia pestis.
Per chi volesse approfondire questo argomento inquietante ma affascinante, lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Communications.
FONTE: ScienceAlert
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